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Ciascuno di noi fa, secondo i suoi doni, la sua competenza e le circostanze in cui si trova, il suo “mestiere”: lo studente, l’operaio, il sindacalista, l’insegnante, l’impiegato, l’imprenditore, il commerciante. Ciascuno nel suo ambito si impegna ad agire con competenza. L’Istituto come tale non fa alcunchè di tutto questo. Non gestisce alcuna opera né commerciale, nè formativa, né sociale. L’Istituto cerca di aiutare i propri membri a vivere e sviluppare da cristiani e da cristiani “consacrati” ciascuno la sua attività. Non si occupa degli aspetti tecnici, si occupa della coerenza cristiana dei propri membri anche per questi aspetti lavorativi e professionali.

Perché consacrarsi nell’Istituto?

Discorso per la festa di Cristo Re in Polonia (Marco C. – 2003)

Eccoci giunti alla festa che annualmente celebriamo per ricordare il grande dono della vocazione speciale che Dio ha voluto fare alla Chiesa e al mondo intero, suscitando l’Istituto Secolare “Cristo Re”.
La nostra gioia è accresciuta anche dal fatto che l’Istituto intero con meraviglia e gratitudine vede crescere la sua famiglia non solo dal punto di vista qualitativo, ma anche nel numero di membri. Cinque nuovi professi in Polonia, Italia e India; nove nuovi aspiranti in Polonia, Italia, India e Uganda. Altre persone si stanno avvicinando all’Istituto in varie parti del mondo. La nostra comunità polacca si arricchisce oggi di tre nuovi membri e due nuovi aspiranti. Di questo ringraziamo il Signore.Ma qual è il significato e il senso dell’Istituto oggi? Perché vi sono ancora persone che, in risposta alla divina chiamata, decidono di consacrarsi a Dio rimanendo nel mondo? Perché oggi Mariusz, Maciej e Stanislaw emetteranno i loro primi voti nell’Istituto? Non si tratta di una scelta guidata da un interesse materiale, da un guadagno economico. Non si tratta neanche di una scelta che serve a distinguerli dagli altri, a metterli in una posizione privilegiata o di potere. Non si tratta neppure, infine, di uno stato di vita che consentirà maggiori gratificazioni sul piano affettivo. Oltretutto l’Istituto non offre protezioni materiali, non separa dal mondo, non dà un’uniforme, non corrisponde uno stipendio, non assicura dalla disoccupazione e dalla solitudine. Ma insomma: perché consacrarsi allora nell’Istituto? Quale utile se ne ricava? Non avremmo potuto essere buoni cristiani comunque, senza caricarci di ulteriori impegni e responsabilità? «Allora Pietro, prendendo la parola, disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?”» (Mt XIX,27). Credo che la nostra comune esperienza sia che, se cerchiamo dei vantaggi di tipo materiale in termini economici, affettivi o di posizione sociale, certo non li troviamo nell’Istituto. Anzi, nell’Istituto troviamo tutto il contrario: non vantaggi economici, ma l’impegno ad un uso dipendente dei nostri beni; non posizioni di potere, ma l’impegno a sottomettere la nostra volontà alla volontà di un altro; non gratificazioni affettive, ma l’impegno a mantenerci celibi. I voti che diversi di noi qui presenti hanno emesso e che Mariusz, Maciej e Stanislaw emetteranno stasera per la prima volta, impegnano proprio a questo: uso dipendente dei propri beni, sottomissione della volontà, celibato. E ci chiediamo: perché? Che senso ha? Quale ne è la motivazione? Che cosa ci spinge a tanto? Ebbene la risposta è facile, ma allo stesso tempo terribile: è l’Amore. È l’Amore di Dio che ci chiama a una tale scelta esclusiva di Lui; è l’amore nostro, in risposta al Suo, che ci spinge ad unirci a Lui sempre più intimamente. Tutto questo è bellissimo, ma anche terribile, perché non è uno scherzo, non è uno dei tanti impegni che l’uomo prende e di cui poi si scorda poco dopo. È un impegno preso direttamente con Dio, senza intermediari, senza “se” e senza “ma”.

Il Signore chiama, noi rispondiamo. Il suo è un dono, un dono che liberamente Egli offre a chi vuole. Al dono da parte di Dio segue la nostra risposta. Quando si riceve un regalo, normalmente si risponde ringraziando. E la gratitudine è tanto maggiore quanto più prezioso è il dono. Dio ci ha fatto un dono immenso chiamandoci alla vita, alla fede, alla consacrazione. E la consacrazione è uno dei due componenti costitutivi della nostra vita nell’Istituto. Essa è quel legame speciale con Dio che accogliamo come dono e che ci impegniamo a vivere con responsabilità. La consacrazione è infatti innanzitutto un dono di Dio, qualcosa che viene da Lui gratuitamente, solo perché ci ama. Non riceviamo la consacrazione perché più degni di altri, perché più puri di altri, perché più amati di altri. Non riceviamo la consacrazione perché ci distinguiamo dagli altri. È solo l’amore misericordioso di Dio che può arricchirci di un dono così grande, non le nostre credenziali. Gesù, «nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”» (Mt II, 14). Ma ricordiamo che la consacrazione che siamo chiamati a vivere per divina chiamata non è una consacrazione generica, avulsa dalla realtà. Tutt’altro. La consacrazione nostra è indissolubilmente legata e segnata dal luogo in cui essa si realizza: il mondo. Non viviamo la nostra consacrazione in un convento, ma nel mondo. Non portiamo al mondo delle opere apostoliche già confezionate, ma ognuno ha la propria professione diversa dalle altre: siamo operai, insegnanti, impiegati, pompieri, giardinieri, professori, bancari, agricoltori, pensionati… E ciò che ci incoraggia è sapere che tutto quello che facciamo non è indifferente al Signore. Al contrario, Dio ci chiede di compiere tutto questo nella consapevolezza che è la via naturale e propria della nostra partecipazione all’annuncio del Vangelo che la Chiesa fa costantemente. Tale annuncio è fatto, di regola, in forma esplicita dai pastori; è compiuto invece in forma implicita dai laici attraverso il compimento delle attività di cui sono responsabili. L’esecuzione attenta e competente dei nostri compiti, l’aggiornamento professionale costante, l’intenzionale offerta a Dio di ciò che compiamo fanno sì che la nostra presenza nel mondo non sia indifferente, insignificante, vuota, ma ricca di annuncio evangelico. Non è comunque solo il lavoro che qualifica il nostro stare nel mondo da cristiani e da cristiani consacrati. La qualità delle relazioni che intratteniamo con il prossimo, il nostro modo di vivere il tempo libero, l’interesse curioso che abbiamo per tutte le cose che avvengono attorno a noi, il desiderio di confrontarci con realtà diverse senza paura di udire cose che ci scandalizzano, un atteggiamento non giudicante e non moralistico di fronte alla realtà e alla sua cangiante varietà: tutto questo, e altro ancora, caratterizza il nostro essere cristiani. «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et Spes). Tutto questo bagaglio di atteggiamenti culturali e spirituali appartiene al cristiano, e in modo particolarmente curato, ai consacrati. La nostra presenza nel mondo non è un ripiego; è una scelta ben precisa. Tutte le sue sfaccettature ci riguardano. Ogni ambiente umano ha bisogno di essere imbevuto dell’amore che sgorga da Gesù e dal Suo Vangelo. La nostra presenza nel mondo è oggi quanto mai necessaria e capace di apportare significato. Infatti assistiamo – e vi siamo immersi – a processi nuovi e molto veloci che, nel rapido lasso di un decennio, sono in grado di spazzare via secoli di predicazione del Vangelo. Questi processi li chiamiamo con vari nomi, secondo l’accento che gli si vuole dare. Parliamo ultimamente di secolarizzazione come anche di globalizzazione. Non è questo certo il luogo per parlare di questi fenomeni in maniera approfondita. Non dobbiamo lasciarci appesantire però da letture aprioristicamente negative di questi fenomeni, ma dobbiamo cercarne gli aspetti positivi, perché si tratta di movimenti che, nella storia delle civiltà, si ripresentano periodicamente. In modo particolare il processo di secolarizzazione tende a considerare l’uomo solo a due dimensioni (quella corporea e quella spirituale), non prendendo in considerazione – o addirittura escludendo – la terza: la vita divina. Il nostro vivere nel mondo non può e non deve ignorare l’esistenza di questo fenomeno e i suoi prodotti. Tuttavia ricordiamo che proprio il riconoscimento diffuso delle due dimensioni ci permette di dialogare con la maggior parte degli uomini e ci dà l’occasione di testimoniare Gesù.

Quale sarà allora il nostro stile, nella doppia fedeltà a Dio e all’uomo? Sarà quello tipicamente evangelico del sale e del lievito nella pasta. «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt V,13). «Un’altra parabola disse loro: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti”» (Mt XIII, 33). Il cristiano non è uno che deve imporre la sua presenza, uno che deve farsi riconoscere sempre, dovunque e comunque; non siamo portatori di un’ideologia, non siamo membri di un partito. La nostra presenza nel mondo dev’essere secondo la Parola di Gesù: sale e lievito. L’essere cristiano può trasformare la vita; e una vita trasformata secondo Dio può assumere un sapore e una fecondità impensabili. Tutto questo può a sua volta trasformare la società, il mondo. Solo se la nostra fede in Dio è grande, allora la nostra semplice presenza nel mondo potrà trasformare il mondo. Ma guai a noi se usiamo strumenti incoerenti col Vangelo: il potere, la forza, la violenza, l’imposizione… non saremo più portatori della Parola di Gesù, ma della nostra: povera, impotente, capace di distruggere, e non di costruire.

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